Quando ero piccolo mio padre c’era poco, in casa. E non solo
per lavoro, ho sempre saputo che non ci teneva a stare con noi. Quando c’era,
non mi parlava. Quando parlava era severo e spiccio. Lo si diceva un uomo molto
intelligente, ma con me e mia madre era duro e superficiale al tempo stesso. Nessuna
sensibilità che sapesse cogliere le sfumature delle nostre vite, nessuna attenzione
capace di profondità. Lei invece attutiva tutto, se lo scrollava di dosso, e
difendeva il più possibile l’integrità della sua dolcezza.
Io soffrivo in modo bestiale. Avevo dentro un magma che
avrei voluto eruttare, o che stesse sopito per sempre. Le emozioni, maledette,
mi facevano imperatore o schiavo a loro capriccio. E soffocavano la mia
intelligenza, che volevo superiore a quella di mio padre, per schiacciarlo, per
liberarmi. Volevo cambiare il mondo, ma c’era in me qualcosa, una mitezza, una
morbidezza, che rallentava ogni mio slancio. Era fragilità? O forza? Ero troppo
saggio per competere in un mondo mediocre, o ero troppo mediocre per prevalere
in un mondo spietato?