lunedì 19 marzo 2012

Nella testa del papà





Quando ero piccolo mio padre c’era poco, in casa. E non solo per lavoro, ho sempre saputo che non ci teneva a stare con noi. Quando c’era, non mi parlava. Quando parlava era severo e spiccio. Lo si diceva un uomo molto intelligente, ma con me e mia madre era duro e superficiale al tempo stesso. Nessuna sensibilità che sapesse cogliere le sfumature delle nostre vite, nessuna attenzione capace di profondità. Lei invece attutiva tutto, se lo scrollava di dosso, e difendeva il più possibile l’integrità della sua dolcezza.

Io soffrivo in modo bestiale. Avevo dentro un magma che avrei voluto eruttare, o che stesse sopito per sempre. Le emozioni, maledette, mi facevano imperatore o schiavo a loro capriccio. E soffocavano la mia intelligenza, che volevo superiore a quella di mio padre, per schiacciarlo, per liberarmi. Volevo cambiare il mondo, ma c’era in me qualcosa, una mitezza, una morbidezza, che rallentava ogni mio slancio. Era fragilità? O forza? Ero troppo saggio per competere in un mondo mediocre, o ero troppo mediocre per prevalere in un mondo spietato?

Ero ateo. E forse lo sono stato fino al giorno della mia morte. Ma credo di aver vissuto più ore della vita ad ascoltare Dio, che a correre dietro agli uomini.

Lo ascoltavo in una barca nel mezzo dell’azzurro, per ore, sotto un sole fermo che riempiva tutto il cielo, cullato dalla risacca dell’ancora, in attesa di un pesce che smuovesse il torpore. Lo ascoltavo in moto, col vento sulle guance, e sul campo da tennis, nella tensione sorda dei colpi. Lo ascoltavo chiacchierando con gli amici di una vita, pochi e devoti, che dicevano sciocchezze tonanti prima nel nome di Stalin e più tardi in quello di Fini, ma a me non è mai importato cosa dicessimo: amavo il calore del cerchio formato dai nostri corpi, gli sguardi sbilenchi di intesa, essere l’uno per l’altro divini. Lo ascoltavo stando accanto a mia figlia in silenzio, uniti da un filo vibrante di complicità misteriosa. Lo ascoltavo discutendo con mia moglie, sui massimi sistemi, la politica, i valori, sperando di plasmare la sua intelligenza acerba ed esuberante, come non avvenne mai. E io me ne ebbi a male. Giovane e agguerrita, mi scivolò via dalla mano per cui la tenevo, cercando di essere saldo ma gentile. Restò fedele a me e alla mia immagine di uomo bello, buono e intelligente, esaltò il mio ricordo in una continua narrazione, ma non amò mai come io volevo la mia sostanza aggrovigliata e nera tra contemplazione e impulsività e me ne andai via prima di essermi svelato a lei, a mia figlia che era troppo piccola e forse anche a me stesso.

Mia figlia mi assomiglia, l’abbiamo detto tutti da quando è nata. Di aspetto e di personalità. Ora che è madre si impegna per essere amorevole e presente come mia moglie non lo è stata mai, e certo come non  come il padre che sono stato io per lei. Però forse avrei voluto, o potuto, se fossi stato donna. O se fossi vissuto in un tempo diverso, come questo, in cui sempre più persone, uomini e donne, rivendicano spazio a quel magma che io ho continuato a inghiottire tutta la vita, senza più temerlo come un imbarazzo, ma proponendolo come un valore. Essere se stessi è diventato anche una moda, e per di più interclassista. Non avrei mai creduto che il personale che era politico si sarebbe evoluto così.

Il compagno di mia figlia è presente quanto lei. Si vede che non si sforza per esserlo, ma probabilmente se fosse vissuto in un'epoca diversa si sarebbe sforzato per non esserlo. Al mio tempo un uomo non aveva molte possibilità di cercarsi dentro il padre migliore che potesse essere. Ma per le donne era molto più difficile. Dovevano sfruttare la libertà che si erano costruite con tanta bravura, se erano troppo madri si sentivano in colpa verso se stesse, se erano troppo libere si sentivano in colpa rispetto al modello di sacrificio e abnegazione delle loro madri, l’unico altro esempio di madre che avessero. Allora provavano un misto, una via di mezzo, un andirivieni tra eccesso di attenzioni ed eccesso di indipendenza.

Non si può stabilire davvero se e quanto i figli sono frutto della nostra educazione, sia nel bene che nel male: ed è per questo che, nel dubbio, è giusto fare del nostro meglio.

Guardando mia figlia e il suo compagno ho l’impressione che oggi sia quasi possibile, o comunque un po’ più di ieri. Certo, anche grazie a noi.


Nessun commento:

Posta un commento