giovedì 29 dicembre 2011

Back to basics. Non di sola madre, di Elena Gianini Belotti


E' Natale e sono venuta a trovare mia madre. A suo tempo lo fu anche lei, femminista. A suo modo lo è tuttora, tenacemente. Io lo sono diventata, credo, una quindicina di anni fa, nel passaggio dall'adolescenza alla giovinezza, accorgendomi di essere donna per difetto, per differenza, insomma, non perché mi sentivo diversa ma perché venivo trattata diversamente. Nei costumi sessuali e sentimentali che si presumeva avessi, nella considerazione che si assegnava alle mie facoltà intellettuali e più di tutto, nell'intolleranza verso una personalità difficile. Passata quella fase, è stato il tempo delle discriminazioni adulte: il lavoro, i ruoli sociali, le prospettive economiche. Poi finalmente è arrivata un'occasione per sentirmi donna che non avesse a che fare con una discriminazione: la maternità. O almeno così credevo. Una mia scelta avere un figlio, qualcosa da vivere col mio corpo e nel mio corpo. E invece no. 
Come tante donne, volevo informarmi. Già, informarmi: perché la mamma femminista, perpetuando una tradizione di mancata trasmissione dei saperi femminili, non aveva purtroppo granché da dirmi. E poi dopo trenta anni si presume che i tempi fossero molto cambiati. Trascinata prima da Internet e poi dai libri, un fiume di parole mi ha portata attraverso tutta la gravidanza e fino alla maternità, e poi ancora oltre, dentro lo studio e fino a un percorso professionale, nel cuore di un impegno sfaccettato. E quasi subito ho visto lo strano miracolo: le acque si aprivano. Il fiume si divideva in due e da esso emergevano, cantando come sirene, un bel po' di donne. Da un lato un coro seducente ma a volte dissonante di ritorno al materno corporale, spirituale, naturale, dall'altro un grido di dolore abbastanza straziante, il grido del dolore del parto e del mancato riconoscimento di un diritto umano, e dietro questo un altro grido più soffocato, quello dei diritti, di tutti i diritti di tutte le donne. A camminare in mezzo a questi due cori, rischiavo di restare all'asciutto. Quel che ho capito da subito e che lo studio e l'esperienza non fanno che confermarmi ogni giorno, è che l'unica è tuffarsi in entrambe le acque. Sperando che Mosè si faccia da parte e che il fiume delle donne e dei diritti ritorni a essere uno, e soprattutto impetuoso.
E così oggi sono qui da mia madre, e mentre lei fa la nonna e si spupazza mia figlia di quasi cinque mesi, io sto accovacciata accanto a una libreria e formo una piccola pila di titoli sul femminismo. Non farò mai in tempo nemmeno ad aprirli tutti, nei pochi giorni che resterò a Napoli. Ne apro uno vecchiotto, del 1983, e inizio a leggerlo. E mi cattura. Perché di vecchio ha davvero pochissimo. Tanto che decido che devo ricopiarne alcune parti qui nel blog, e farne il primo post.
Non di sola madre di Elena Gianini Belotti è un classico della saggistica femminista, come il più famoso Dalla parte delle bambine. La Belotti diresse per vent'anni il Centro nascita Montessori. Non di sola madre è un testo denso, dettagliato, mai scontato. Ci sono lunghe pagine che descrivono nei particolari la cruenza della medicalizzazione del parto e della nascita che nei primissimi anni Ottanta era la normalità, pratiche che in moltissimi aspetti, trent'anni dopo, continuano a essere diffuse in alcune zone di Italia, mentre altrove hanno invece conosciuto il necessario progresso sia dal punto di vista della medicina (per esempio con un'epidurale oggi sicura e compatibile col parto fisiologico e attivo) che da quello dell'umanizzazione. C'è un capitolo che affronta le implicazioni culturali, mediche e sociali dell'allattamento, nel delicato passaggio che allora si era da poco compiuto, da una cultura pediatrica tutta a favore del latte artificiale alla completa rivalutazione dell'allattamento materno. Ci sono considerazioni acute sui punti di criticità di ogni questione legata al materno, considerazioni personali, oneste, ma mai partigiane né frettolose. L'autrice riconosce a Leboyer e Odent meriti e torti, e altrettanto fa con la medicina moderna. Forse perché in quel momento il dibattito femminista era ancora così plurale e popolato, così vivo e centrale da riuscire a farsi sentire forte e chiaro anche senza innalzare barricate ideologiche, forse perché era ancora possibile cogliere le implicazioni complesse del ridefinire l'identità femminile. O forse è solo la Gianini Belotti, in questo testo, a presentare il pregio della profondità senza sacrificare né acume né incisività. Fatto sta che è la sua generazione, a forza di dibattiti anche furiosi e di sperimentazioni esistenziali genuine, quella che è riuscita a ottenere conquiste politiche di cui oggi noi beneficiamo. Ma non è per osannare le femministe anni Settanta che scrivo questo post.
Lo scrivo per riflettere su tre cose che mi appaiono fondamentali.
Primo, un pensiero pratico: nel 2011 ci poniamo le stesse questioni che ci si poneva negli anni Settanta e Ottanta. Lo so, è un'ovvietà, ma forse non per tutte. E non per Internet. Alla futura mamma incinta che approdasse su siti vari nel corso delle sue avide navigazioni a caccia di questa famosa informazione consiglio di tener presente innanzitutto questa cosa. In trent'anni sia la sanità che la politica che la cultura hanno fatto dei progressi. Ma attorno a maternità, parto e identità femminile si produce un discorso che è identico ieri come oggi. E prima di affezionarsi a un libro o a un modo di pensare, controllare la data originale può essere utile.
Secondo pensiero. Non ci siamo spostate di un millimentro, pare. O quasi. Cosa è successo? Tra le lotte degli anni Settanta e oggi, un silenzio assordante. Il cadavere del femminismo giace in calze a rete e tacchi a spillo nelle stanze di Arcore e a rianimarlo ci provano un documentario televisivo e una domanda sul Quando, senza che si sia chiarito bene il Cosa. Ma di chi è quel silenzio? Chi è che è stata zitta in questi decenni? Evidentemente proprio le stesse donne che avevano lottato e vinto, almeno in parte, negli anni Settanta. Quelle donne che non parlano con le loro figlie. O che non hanno saputo trovare il modo giusto per trasmettere, che è cosa diversa dal parlare, e presuppone una precisa intenzione educativa - e l'abbandono, appunto, della visione fallologocentrica, che tuttavia è quanto di meglio le nostre madri siano riuscite a conseguire e comunque non è poco. 
Il terzo pensiero è un'ispirazione. Il modo niente affatto dogmatico con cui la Belotti pensa, studia, si esprime. Deve esserci di esempio, oggi più che mai. Insieme al fatto che non esistono, nelle sue parole, scuole di pensiero contrapposte pro o contro il parto naturale, maternità a basso o alto contatto ecc. ma piuttosto tendenze, in parte sovrapponibili a quelle odierne, in parte profondamente cambiate, al cui interno gli ingredienti si mescolano e si scambiano, e possono essere usati ciascuno a favore o contro una donna, o tutte le donne, un bambino, o tutti i bambini.




Nascere: trauma fisiologico o cambiamento radicale?

Secondo Otto Rank, il trauma della nascita rappresentato dal distacco dal corpo materno segnerebbe indelebilmente l'intera esistenza dell'uomo.
(...)
Che la nascita fisiologica di per sé, indipendentemente dalla modalità con cui viene organizzata e da eventuali difficoltà del parto, rappresenti sempre e comunque un trauma, è contrario alla logica di evoluzione della vita umana, che si svolge attraverso cambiamenti successivi propri dell'età evolutiva.
(...)
Il neonato umano, a differenza dei cuccioli degli animali, nasce immaturo. Al momento della nascita il cervello ha raggiunto un volume variabile da 375 a 400 centimetri cubi, dimensione che impone la nascita del piccolo. "Se non nascesse allora, e continuasse a crescere con il ritmo intrapreso, non potrebbe nascere affatto, con conseguenze fatali per la continuazione della specie umana". (Ashley Montagu, Il tatto, Garzanti, Milano 1975, p. 47).
(...)
Il travaglio di parto, caratterizzato da contrazioni uterine che aumentano via via di intensità e frequenza, lungi dal rappresentare un trauma per il bambino, rappresenta "la garanzia fondamentale di una adeguata preparazione del piccolo al funzionamento postnatale" e poiché la madre umana possiede assai scarse risposte innate (come quella del leccamento dei piccoli appena nati, tipiche dei mammiferi che invece hanno un travaglio assai corto) il lungo travaglio della specie umana è una risposta "fisiologicamente automatica" al bisogno di stimolazione cutanea del neonato. (...) I mammiferi non umani hanno travagli di parto piuttosto brevi, non sufficienti "ad attivare apparati fondamentali come quello genito-urinario, quello gastrointestinale e, parzialmente, quello respiratorio: perciò le madri iniziano ad attivarli con il leccamento" (Ashley Montagu, op. cit.).
(...)
Se, allo scopo di evitare il presunto trauma della nascita, si ricorresse al parto cesareo, i risultati sarebbero sorprendenti per chi considera la nascita un trauma: infatti "i bambini nati da parto cesareo tendono a essere caratterizzati, rispetto a quelli nati da parto vaginale, da maggior letargo, ridotta reattività e minor frequenza di pianto". I quali si potrebbero, d'altra parte, imputare alla obbligatoria anestesia a cui è stata sottoposta la madre, oppure alla sofferenza fetale già in atto che ha reso necessario il cesareo, per cui a questi si aggiungono i danni dell'anestesia. Ma Montagu insiste: (...) "Si può avanzare l'ipotesi che, fra l'altro, gli svantaggi derivanti dal parto cesareo siano in certa misura connessi con la mancanza di una adeguata stimolazione cutanea" (Ashley Montagu, op. cit.). 
(...)
Adrienne Rich ricorda che se ci sono molte leggende romantiche sulla facilità e disinvoltura con cui partoriscono le donne di certe culture primitive, è certo che i loro parti sono più facili di quelli delle donne occidentali. (...) Gli accoppiamenti in quelle culture avvengono tra individui appartenenti alla stessa razza e gruppo etnico, con caratteristiche fisiche simili, e quindi i bambini concepiti saranno proporzionati alle madri. In Occidente, al contrario, per millenni le varie razze si sono incrociate a tal punto che una donna piccola e dall'ossatura minuta può accoppiarsi con un uomo alto e massiccio e dare alla luce un bambino con le caratteristiche fisiche del padre. (...) (altri fattori elencati a sfavore delle donne Occidentali: vita sedentaria e posizione distesa durante il parto) Tutto ciò prolunga e rende laborioso il parto di molte donne. Ma se il bambino è geneticamente programmato per nascere (...) e il parto si mantiene nella normalità, non è giustificato parlare sempre e comunque di trauma della nascita.


Protezione o eccesso di accudimento?

Anche il divezzamento viene da taluni visto come un trauma da distacco del seno materno (...). Questa convinzione (...) rivela una concezione del bambino come un essere statico e conservatore (...). Solo un adulto eccessivamente preda della cultura psicanalitica e incapace di fronteggiare una vita normalmente conflittuale può pensare alla vita fetale come a una condizione ideale perduta con la nascita. (...) E' singolare che la nascita venga vista come una dolorosa rinuncia alla simbiosi con la madre e il divezzamento come un'altrettanto dolorosa rinuncia al seno materno mentre l'acquisizione della posizione eretta, della deambulazione e del linguaggio vengono viste come importanti vittorie e conquiste per le quali il bambino non paga alcun prezzo (...). La protezione eccessiva e prolungata del bambino è un problema dell'adulto verso la propria infanzia. Paradossalmente, il desiderio di proteggere il bambino a ogni costo potrebbe indurci a far nascere il bambino col taglio cesareo (...). Ma non è nella fisiologia della nascita che esiste il trauma: è nel modo di nascere così come è stato organizzato culturalmente che esso risiede e, mentre la fisiologia è invariabile, la cultura della nascita può e deve essere cambiata.


Nascere senza violenza

Il 1974 è l'anno in cui esplode il messaggio di Leboyer, "per una nascita senza violenza", messaggio che si propaga con rapidità inattesa. L'ostetrico francese ha sperimentato modi di accogliere il neonato che attenuano la sofferenza aggiunta del nascere, quella provocata dalla organizzazione culturale della nascita. (...) La "mistica della nascita" di Leboyer deflagra e contagia tutti. (...) Come per tutte le cose semplici, quelle che stanno sotto gli occhi di tutti eppure restano invisibili, la "scoperta" di Leboyer è clamorosa. Ma non nuova: infatti, più di trent'anni prima, Maria Montessori ha già espresso tutto questo quasi con le stesse parole. Dalle sue idee è nato il Centro nascita Montessori (...). I tempi, allora, non sono ancora maturi, le esperienze del Centro nascita Montessori vengono sottovalutate, irrise, giudicate eccentriche, tanto è lontana ancora l'idea che il neonato sia un essere vigile e all'erta, in grado di provare dolore e piacere. 
Che cosa ha fatto sì che il messaggio di Leboyer venisse invece così calorosamente accolto?
Gli ultimi quindici anni, come è noto, sono stati caratterizzati da una imponente presa di coscienza collettiva che si è coagulata in movimenti per la liberazione dell'individuo: la contestazione giovanile ha investito valori e istituzioni e dato voce agli oppressi. Ma è il movimento delle donne che, analizzando il vissuto di oppressione che la maternità comporta e il prezzo altissimo da esse pagato per la riproduzione della società degli uomini, pretende di sperimentare nuovi modelli liberatori, per se stesse come per gli altri, e dunque anche per il bambino che nasce. Il messaggio di Leboyer trova quindi un terreno fertile in cui attecchire: nuova nascita può significare speranza ravvicinata di nuova vita; demolizione del mito dell'efficienza e della sicurezza della medicina, rivelatosi fallace come tutti i miti; porre come valore primario la propria salute fisica e mentale; riappropriarsi della propria voce e del proprio corpo, rifiutando di subire passivamente parto e nascita svuotati di umanità, considerati malattie, esasperatamente medicalizzati e ridotti a evento patologico. Vuol dire pretendere che lo sguardo del medico si distolga dai grafici e dalle lancette per incontrare quello della donna.
La maternità, così come è stata regolamentata dagli uomini, rappresenta il luogo massimo del loro potere e del controllo della sua funzione riproduttiva e sessuale. La medicina è dominio incontrastato degli uomini da tempo immemorabile (...).
Oltre al risveglio delle coscienze femminili, altri elementi concorrono al successo della proposta di Leboyer: un "ritorno alla natura" che suggerisce cibi sani e naturali, contatto con la natura, rispetto e conservazione dell'ambiente, autogestione della propria salute e utilizzo della medicina alternativa, nuova ottica verso il corpo e le sue funzioni naturali, compresa quella sessuale e riproduttiva, la più carica di significati, di simboli, di potere.
L'ostetricia, che pure ha realizzato importanti progressi, è in un vicolo cieco: la medicalizzazione del parto e l'esasperazione tecnologica connessa hanno raggiunto il culmine. (...) Macfarlane asserisce che "oggi possiamo esaminare gli aspetti psicologici della nascita soltanto perché sappiamo che sia la madre che il figlio hanno delle ottime possibilità di sopravvivenza" (Aidan Macfarlane, Psicologia della nascita, Boringhieri, Torino 1980). Ciò significa accettare e condividere una logica di scissione dell'individuo, di priorità nei bisogni, di incapacità di considerare gli aspetti molteplici di un avvenimento così complesso come la nascita. (...) Il ritardo nel raggiungimento della consapevolezza che i fatti umani non si possono scindere in "anima e corpo" dipende dalla gestione maschile della medicina (...).
Tuttavia le donne, se pure apprezzano e accettano le idee di Leboyer, acutamente intravvedono il suo protagonismo, che significa di nuovo la loro esclusione: lui le considera strumenti al servizio del bambino e le copre di un velo di disprezzo. (...) Sembra non comprendere che il benessere della madre e quello del bambino sono unici e inscindibili. (...) Leboyer è medico e maschio: vede la violenza contro il neonato, ma non quella complessiva e specifica contro la donna. Senza la coscienza precisa che la società intera deve riorganizzarsi intorno alla maternità intesa come funzione sociale fondamentale, la nascita senza violenza rischia di diventare una nuova mistica, un rito propiziatorio e gratificante da celebrare all'inizio della vita, perché tutto rimanga invariato, contrassegnato dalla stessa violenza di rapporti.
Nella scarsa considerazione verso la donna, non c'è differenza tra Leboyer e l'ostetrico tradizionale. (...)
Leboyer appoggia il parto in casa, sostiene che quella degli ospedali è una falsa sicurezza (con ragione) e che sono le donne a doversi sottrarre all'istituzione. Che è come dire: rischiate per conto vostro, poi qualcosa cambierà. Le donne, giustamente, giudicano molto rischiosa la scelta individuale di partorire in casa senza un'organizzazione predisposta per intervenire tempestivamente quando sia il caso. Vogliono che siano i medici e l'istituzione a cambiare. Leboyer sembra far dipendere il cambiamento da una rivoluzione interiore individuale, della quale fa parte l'accettazione del dolore. Gli sfugge la visione sociale del problema della maternità. E' un uomo che parla alle donne e non le raggiunge.


Il dolore felice

Odent sostiene che, piuttosto che insistere a lottare contro il dolore e la paura, lotta che rientra perfettamente nella logica del sistema, è assai più rivoluzionario insistere, a proposito del parto, sull'esperienza del piacere che segue quella del dolore. (...) Quando si persegue l'ambizioso progetto di "aiutare il corpo delle donne occidentali a ritrovare ciò che hanno dimenticato nel corso dei millenni" (Michel Odent, Nascita dell'uomo ecologico, Red, Como 1981) si finisce per imporre una mistica della nascita primitiva di segno opposto, ma altrettanto assoluto, della esasperata medicalizzazione di altri luoghi: qui come là, non c'è spazio per le scelte della donna.
(...)
Sheila Kitzinger, madre di cinque figlie (dovrebbe ben sapere di che cosa parla), vede il parto come una grossa fatica, un'impresa che comporta un imponente dispendio di energie: significa dolore fisico, ma anche sensazioni di intenso piacere sessuale simili all'orgasmo (...). Ciò può essere vero soltanto per una minoranza di donne. Simili teorie, nella loro assolutezza, servono soltanto a far sentire inadeguate e colpevoli quelle donne che vivono esperienze di parto lontane da questi modelli.
Il dolore del parto continua a essere una realtà per la maggioranza delle donne e il problema non è mai stato affrontato nella sua globalità: si tratta di studiare non solo gli interventi farmacologici atti a cancellarlo senza produrre danni, ma anche le condizioni ambientali, fisiche e psicologiche, che possono contribuire ad alleviarlo, le posizioni corporee, i metodi di preparazione al parto, per utilizzare tutto ciò che è disponibile, contemporaneamente o alternatamente, seguendo le esigenze di ogni singola donna. I vari metodi di psicoprofilassi del parto che si sono succeduti negli ultimi decenni non hanno mantenuto la promessa di sopprimere il dolore, perché l'ipotesi che esso avesse origine soltanto nella mente condizionata della donna e non nel suo corpo si è dimostrata falsa. Poiché questo era l'assunto imposto alle donne, quelle che provavano comunque dolore giungevano a negarlo per non essere costrette ad ammettere il proprio fallimento. "Il parto ben riuscito è presentato come un vero rito iniziatico, una prova di volontà, la tappa essenziale di una vita riuscita" (Marie-José Jaubert, Les bataleurs du mal joli, Balland, Paris 1979). Tuttavia, in ognuno dei metodi di preparazione al parto esistono elementi positivi che non vanno rifiutati.
E' singolare che, mentre qualsiasi mal di denti o mal di testa ha trovato sollievo nel farmaco adatto, il dolore del parto sia l'unico rimasto senza rimedio: la persistente indifferenza nei confronti del dolore della donna indica la sopravvivenza nelle coscienze dell'idea che la sofferenza sia inscindibile dalla maternità. La ricerca scientifica, come ben si sa, non è neutrale, ma nelle sue scelte e nel suo impegno risponde a una precisa posizione ideologica.
Nonostante Leboyer, Odent, Braibanti e pochissimi altri, le donne partoriscono e i bambini nascono in un'atmosfera di indifferenza, violenza, ostilità. Nonostante non tacciano più, ciò che dicono resta inascoltato. Il sogno di un parto umano, affettuoso, gentile, accompagna le donne per tutta la gravidanza: esse sperano, contro ogni evidenza, che il loro parto rappresenterà il caso fortunato, quello che non è compreso nei racconti delle donne. Ma non sarà così. Sono sempre gli altri che decidono della qualità del loro parto e, per il bambino, della qualità della sua nascita. Ma è lei che si sentirà colpevole e disperata per non aver saputo ottenere quello che aveva sognato.

(I brani sono tratti da Elena Gianini Belotti, Non di sola madre, Rizzoli, Milano 1983, pp. 26-42. I titoli e i corsivi sono miei.)

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